In questo post vorrei soffermarmi sulle nozioni di prestito linguistico, calco linguistico, uso improprio di termini stranieri nella lingua italiana, problemi di comunicazione causati dall’utilizzo improprio di tali termini stranieri nella lingua italiana e, infine, sull’immenso fascino che la nostra lingua riveste tutt’oggi nel mondo.
Cosa succede alla lingua italiana? Perché ultimamente questa contaminazione sconfinata dalle lingue straniere, soprattutto l’inglese? Perché utilizziamo termini ed espressioni stranieri quando anche in italiano vi sono corrispettivi che veicolano esattamente lo stesso significato e impatto comunicativo? Forse perché ci fa sembrare più internazionali? O forse perché la lingua italiana non è bella o affascinante?
Circa due anni fa, l’esperta di telecomunicazioni Annamaria Testa, lanciò una petizione (#dilloinitaliano) sul sito www.change.org nella quale esortava a un maggiore utilizzo della lingua italiana specialmente in quei casi in cui i termini italiani sono egualmente efficaci nel trasmettere un messaggio. L’iniziativa è stata ripresa da varie testate a livello nazionale, da Massimo Gramellini su La Stampa a Michele Serra su La Repubblica, da La Nazione a Il Resto del Carlino, da Il Giorno a Famiglia Cristiana, da Wired a Vanity Fair passando per Huffington Post.
A proposito dell’iniziativa di Annamaria Testa, suggerisco la visione del filmato che segue di un suo intervento al TEDx di Milano.
Sulla stessa lunghezza d’onda, recentemente troviamo una rubrica di Luca Bottura, su Radio Capital, nel suo programma satirico del mattino Lateral dove il conduttore si prende gioco dell’inutile, nonché incomprensibile, utilizzo della lingua inglese anche laddove gli stessi termini o espressioni sono perfettamente sostituibili da termini ed espressioni italiane.
Lungi dal passare da oscurantista linguistico, soprattutto in una lingua che non è la mia lingua madre (in realtà, è la mia quarta lingua dopo il Kimeru, Kiswahili e Inglese), anche io mi unisco al coro di coloro che vorrebbero vedere meno scempio della lingua di Dante a favore delle lingue straniere. Non sono un nostalgico dell’italianizzazione, ossia il processo, volontario o forzato, di assimilazione culturale alla cultura e lingua italiana, risalente soprattutto al periodo fascista ma credo che un uso più razionato di termini stranieri nella lingua italiana sia quantomeno opportuno.
Secondo il dizionario Treccani, il prestito (o forestierismo) è una parola, una locuzione o una costruzione sintattica di una lingua straniera che entra nel lessico di un’altra lingua. Tuttavia, vi sono due tipi di prestiti, “prestiti per necessità” e “prestiti di lusso”.
Nella prima categoria troviamo quelle parole che vengono introdotte in una lingua appunto “per necessità”, vale a dire quando sorge il bisogno di riempire un “vuoto” lessicale o semantico a causa l’introduzione di un oggetto o di un concetto proprio del paese “straniero”, ma inesistente nel paese di arrivo (basti pensare alla patata, presa in prestito dall’haitiano, al caffè dal turco, alla maggior parte della terminologia informatica clonata dall’inglese, oppure a quei termini sportivi propri di un paese straniero come inning nel baseball oppure pick and roll nella pallacanestro, ecc.).
Della seconda categoria, fanno parte, invece, quei termini presi in prestito in modo superfluo, in quanto esisterebbero già dei corrispettivi lessicali e semantici nella lingua del paese di arrivo (babysitter vs bambinaia, weekend vs fine settimana, display vs schermo, manager vs dirigente ecc).
Tuttavia, sebbene il prestito di lusso a volte avvenga per facilitare la comunicazione anche se non vi è una necessità prettamente riempitiva di un vuoto lessicale, ultimamente in Italia è sorta la tendenza di un utilizzo quasi ingiustificato, se non eccessivo del prestito.
Parlando di attualità, pensiamo a tutte le leggi o provvedimenti che portano nomi inglesi, spending review, jobs act, austerity, devolution o stepchild adoption, tutti termini perfettamente sostituibili in italiano con revisione di spesa (pubblica), legge sul lavoro, austerità, devoluzione e adozione del figlio del coniuge rispettivamente.
Sebbene tale fenomeno sia molto presente a livello istituzionale, come appena osservato, esso dilaga perlopiù nel mondo delle comunicazioni e finanziario. I titoli di giornali recitano “Alitalia smentisce i rumors, nessun cambio di vertice” (anziché voci), “Il Manager milanese si è recato in procura” (per il dirigente). Nel mondo pubblicitario si trovano espressioni tipo “La nostra fall-winter collection” per designare la classica “collezione autunno/inverno”.
La domanda che sorge spontanea è la seguente: l’utilizzo di parole straniere, soprattutto l’inglese, facilita realmente la comunicazione, oppure aumenta semplicemente il richiamo verso i destinatari del messaggio? A mio avviso, l’utilizzo ingiustificato di termini stranieri nella lingua italiana non migliora la comprensione e soprattutto finisce col creare maggiore difficoltà sia a chi deve utilizzare i suddetti termini sia a chi dovrebbe recepire il messaggio.
A testimonianza di ciò, eccovi un video di alcuni parlamentari italiani alle prese con la pronuncia dell’espressione “stepchild adoption” durante un recente dibattito sulle unioni civili.
Ora pensiamo a quelle persone che, guardando il telegiornale, cercavano di comprendere di che cosa si stesse parlando. Probabilmente il messaggio e le argomentazioni del soggetto politico di turno sarebbero arrivati prima mantenendo l’espressione in italiano e questo fondamentalmente per due motivi: in primis, il numero di italiani con una buona dimestichezza della lingua inglese è molto basso (solo il 16%); in secondo luogo, i destinatari del messaggio sarebbero stati meno distratti dal risultato comico della pronuncia e più attenti al contenuto veicolato Quindi, il prestito superfluo non sempre aumenta l’efficacia comunicativa, anzi.
Infine, vi è la sensazione che gli italiani in generale siano esterofili ossia pensino che le cose provenienti dall’estero, specialmente dal mondo anglosassone, siano migliori delle proprie. La lingua non fa eccezione. A ottobre 2016 è stato reso noto che l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese). Considerando che la lingua italiana non può contare né sui numeri demografici né sulla potenza economica derivante dalle altre tre lingue, si desume che la passione per la lingua italiana all’estero sia una questione di amore per la lingua e non di opportunità che offre.
In conclusione, l’uso dei prestiti linguistici in italiano oggi, sembra più una questione di stato sociale che una vera necessità. La sovrabbondanza, se non l’abuso, di espressioni inglesi nel nostro parlato non sembra trovare una giustificazione.
Sostituire parole esistenti in italiano con espressioni straniere tende a tagliare fuori una gran parte della popolazione (84% per quanto concerne l’inglese), minando, anziché migliorando in effetti, l’efficacia comunicativa. Inoltre, anche se ci fosse l’intento di sedurre i nostri destinatari con parole straniere “persuasive”, dovremmo ricordarci che la lingua italiana resta sul podio come una tra le lingue più romantiche al mondo (giocandosela con gli amici spagnoli e i cugini d’oltralpe).
D’altronde, fu Thomas Mann a far pronunciare al protagonista del romanzo Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull una sorta di dichiarazione d’amore per l’italiano: “Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo….”
Hillary Ngaine Kobia
Coordinatore NLS
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